martedì 20 dicembre 2011

Mons. Brambilla: IMPULSI PER L’AZIONE CATTOLICA: per la celebrazione del Convegno (e oltre)



Le scansioni della “traccia di riflessione”, preparata per il Convegno di Verona, tentano di svolgere esattamente questo: il Risorto come sorgente della speranza di tutti e per tutti; il testimone come figura che dice in carne e ossa la speranza del Risorto; il racconto della testimonianza con le sue dinamiche nel tempo presente; e, infine, il bel tema dell’“esercizio della speranza”.
È la sottolineatura decisiva per un “esercizio del cristianesimo” senza del quale la vita cristiana è debole e fiacca e non riesce ad essere lievito nel mondo. Con i suoi ambiti di esercizio: la vita affettiva, il lavoro e la festa, i modi della trasmissione e della comunicazione, la fragilità presente della vita umana, e il tema del credente cittadino del mondo con lo sguardo alla patria futura.
Per questo il tema del Convegno di Verona è orchestrato sul motivo offerto dalla Prima lettera di Pietro, una lettera affascinante che ci dona un’immagine dei cristiani delle origini nella struggente condizione di “stranieri e pellegrini”, che “rendono ragione della loro speranza”. Rendere ragione non è solo (anche!) un atto della carità intellettuale, ma è un esercizio storico, in compito e un rischio della libertà. Che ha biso-gno del tuo e del mio incontro e confronto. Questo è ciò che dobbiamo favorire in questo tempo di preparazione, perché trovi nel momento alto della celebrazione del Convegno di Verona il suo punto di incontro e di scambio. Anzi, bisogna dire che stando alle riflessioni sin qui svolte noi stiamo già celebrando una tappa del Convegno, perché in questi giorni noi facciamo un esercizio di conversione comunitaria a quel primato dell’evangelizzazione che assume il volto testimoniale della Chiesa.
Pertanto cerco di suggerire – in punta di penna – al cammino dell’Azione Cattolica come approfondire le tre prospettive che sono proposte a tutti, per celebrare in modo fecondo il Convegno di Verona e prolungarne i frutti anche oltre. Sarebbe interessante farlo anche sul filo dei testi della Prima lettera di Pietro. La prima lettera di Pt, di cui solo nella Lumen Gentium ricorrono ben 14 citazioni, è stata la stella polare del Concilio, soprattutto nel capitolo sul Popolo di Dio. Qui potrò solo farlo solo evocando alcuni sprazzi di luce che provengono da quella lettera. Cercherò di evocare tre aspetti che ci aiutano a chiarire gli elementi fondamentali della testimonianza cristiana.

Cristo risorto, (nostra) speranza: il soggetto e l’apposizione.

Il primo aspetto della testimonianza cristiana che cerco di suggerirvi è il suo carattere pasquale e battesimale. L’evento centrale del cristianesimo si dà solo nella forma della testimonianza, vale a dire come una verità che prima di tutto riguarda la mia vita e che solo a questo titolo può essere trasmessa ad altri. La verità cristiana è la Pasqua, è il Crocifisso risorto, è la libertà di Gesù che si affida in totale donazione al Padre, anche e soprattutto nell’evento del suo più radicale rifiuto da parte degli uomini, perché Cristo ha fiducia che il Padre nello Spirito non lo abbandona nelle mani dei peccatori. Questo è il “soggetto” della speranza cristiana: essa è una persona viva, anzi è il Vivente che vince dal di dentro, cioè “convince” tutte le potenze di morte e attraversa tutte le dinamiche mortali del mondo per farle esplodere con lo Spirito della risurrezione. Questo è il roveto ardente pasquale a cui il credente di ogni tempo accede con il battesimo, o meglio con il percorso di iniziazione cristiana. In tal modo Cristo risorto diventa “nostra speranza”: la radice battesimale, iniziatica della testimonianza ci dice che essa ci è data come un dono promesso, ed è donata in rapporto alla ricerca di speranza che di cui si sente una grande nostalgia nel tempo presente. Ecco che cosa significa l’“apposizione” del termine speranza a Cristo risorto: il Signore risorto diventa speranza del mondo attraverso l’esperienza viva che il credente ne fa.
Ascoltiamo la Prima Lettera di Pietro: «Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce» (1Pt 1,3-4). Il tema della rigenerazione pasquale per una speranza viva è originalissimo nella 1Pt (qui e in 1,23 e non c’è in tutto il NT) e presenta tre aspetti: è speranza pasquale, con la risurrezione dai morti; sacramentale, nel battesimo; esistenziale, nella vita mediante la fede. Il tema della “speranza viva” è anzitutto fortemente pasquale: il Risorto è il Vivente e la sua azione in noi genera una speranza viva e attiva; è poi precisata “come una eredità” che non si corrompe, non si macchia, non marcisce. Essa riguarda il futuro, ma ha un anticipo nel nostro essere figli: è incorruttibile, perché è custodita nei cieli per noi; è incontaminata, perché accolta nella fede; è indistruttibile, perché è un patrimonio che non si può perdere.
Nella “Traccia di Riflessione” per Verona è scritto: «Il credente cristiano riceve la chiamata a essere testimone come un dono e una promessa. All’origine del dono c’è il battesimo accolto nella fede, radicato nel mistero pasquale.» (n. 7). La testimonianza cristiana si colloca tra il dono che è il Risorto e la promessa che è la radice battesimale che esige di essere approfondita e coltivata nel cammino dell’esistenza credente. E nel numero successivo il testo aggiunge: «Di fronte al credente testimone sta un cammino di crescita e di responsabilità […]. La metafora del cammino introduce l’idea del tempo, della fedeltà e della libertà, e dà alla vita cristiana un carattere “drammatico”; la libertà cioè si mette in gioco, attraversa il deserto dell’esistenza ed è sottoposta alla prova per entrare nella terra promessa di una vita libera e salvata» (n. 8). Questi due aspetti di promessa e di sfida drammatica della testimonianza cristiana, che mette in gioco la libertà nella storia degli uomini, ci richiamano a uno degli elementi più sicuri della gloriosa tradizione dell’AC, che ha saputo formare e forgiare credenti a tutto tondo, donne e uomini capaci di essere nella storia e di leggerla alla luce del vangelo, cristiani responsabili, cioè capaci di rendere ragione della speranza che è in loro.
Mi domando se non si possa collocare qui un primo suggerimento decisivo: occorre ritornare a riscoprire la vocazione formativa dell’AC: se v’è un accento di novità che il cammino verso Verona raccomanda, è quello di una formazione che abbia una forte armatura spirituale, che sappia rinnovarsi ai fondamentali della vita battesimale (la parola, il sacramento, la comunione), la quale è la radice che alimenta tutte le vocazioni e le missioni nella chiesa. Dove sono oggi credenti che abbiano la fierezza di dirsi cristiani, dove il nome cattolico non è un’etichetta per schierarsi, ma l’indicazione di una sorgente a cui si alimenta la “speranza viva”? C’è un offuscamento di questa radice battesimale e iniziatica della speranza, si è perso di vista che essa è un dono promesso, presente come dono, ma assente come pieno possesso. Tra il dono e la promessa si apre l’esperienza ardua del cammino nel deserto, struggente e meraviglioso, ma anche “grande e spaventoso”, come suggerisce il libro del Deuteronomio. Bisogna ritornare nelle diocesi e nelle parrocchie ad essere gli annunciatori premurosi e tenaci della necessità insopprimibile di formare credenti solidi, storie di vita cristiana che possano dire: io ho visto il Signore! Gesù risorto è nostra speranza, e per questo è la speranza del mondo!

Noi ne siamo testimoni: la dinamica e i linguaggi

Il secondo aspetto della testimonianza cristiana è la sua caratteristica “comunionale” ed ecclesiale: di questo “noi siamo testimoni”. Lo abbiamo ricordato sopra: a tema del Convegno di Verona non è il laico nella sua differenza delle altre vocazioni, o addirittura nella sua diversità dalle altre figure ecclesiali. Non bisogna distinguere per unire, ma occorre distinguere nell’unito: questa è la prospettiva unificante del tema della testimonianza, secondo le lungimiranti parole che papa Giovanni formulava per il rapporto tra le diverse confessioni cristiane: bisogna mette in luce ciò che ci unisce e non ciò che ci distingue o peggio ci divide. Occorre dirlo con franchezza: sovente nel postconcilio abbiamo speso le migliori energie per cercare lo specifico di ogni carisma e vocazione. Ciò è avvenuto però con una mentalità essenzialista: ciò che era specifico della mia vocazione, non poteva essere della tua, perché pensavamo che il proprio di ogni vocazione fosse una “cosa” che non può appartenere contemporaneamente a diverse figure. Abbiamo imparato oggi che le diverse vocazioni cristiane – per quanto di alcune si dica persino che la differenza non sia di grado ma di essenza – non sono altro che “figure” dell’unica vocazione, che è quella della testimonianza cristiana. È questa anche la lezione del Concilio, esattamente legata alla riscoperta del laicato: quando i Padri conciliari arrivarono a parlare dei laici, s’accorsero che stavano dicendo molto di ciò che apparteneva alla vocazione del cristiano e basta! E ne è venuto lo stupendo capitolo 2 della Lumen Gentium sul popolo di Dio: la comune vocazione di tutti i credenti!
È quello che dice con una grandiosa metafora edilizia la Prima lettera di Pietro: «Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo» (1Pt 2,4-5). Attenzione è Pietro che parla: su Gesù pietra/roccia viva (!) anche noi come “pietre vive” dobbiamo lasciarci edificare (oikodoméo) (da Dio) come “casa spirituale”. La casa spirituale ha la forma di una cattedrale di persone: è un’opera di Dio che esige di lasciarsi continuamente posare sul fondamento che è Cristo. Lo scopo (eis) di questa casa/tempio viene indicato con una frase di senso finale: per un sacerdozio santo che offre sacrifici spirituali graditi a Dio. Il termine “sacerdozio” fa della chiesa un nuovo tempio spirituale, dove si esercita un sacerdozio santo. È sorprendente che tutte le metafore del culto antico siano trasferite al nuovo tempio e al nuovo sacerdozio che è la chiesa, la comunità che offre il culto a Dio. Il culto si esprime ormai in sacrifici spirituali graditi a Dio: il servizio sacerdotale necessita che si eserciti un sacrificio spirituale (2,5) e la proclamazione della parola (2,9). Tutto il popolo di Dio è sacerdotale: questa è la sua figura testimoniale.
A questa cura della forma testimoniale della chiesa, in particolare della chiesa locale e della parrocchia, bisogna dedicare una particolare attenzione. Per comprenderla è necessario mettere in luce la “dinamica” della testimonianza. A questo proposito bisogna superare sia una visione “biografica” della testimonianza, sia una visione “dottrinalistica” della testimonianza stessa. La prima avviene quando si pensa a una esperienza particolare che viene apprezzata per la sua singolarità biografica, ma senza che se ne metta in luce il rimando alla speranza di cui vive. Il testimone autentico è, invece, totalmente relativo alla verità attestata, rimanda al Signore al prezzo del suo stesso scomparire, anche se così facendo confessa quanto la fede e la speranza nel Risorto è decisiva per lui, perché è stata capace di farsi carne in lui, come in altri. La seconda sostiene che la testimonianza è solo affermazione di una verità che è tanto più vera quanto appare nella sua nuda oggettività, senza commistioni con il racconto dell’esperienza personale. È la testimonianza di una dottrina e di una tavola di valori, senza immediata attestazione personale. Il testimone autentico sa, però, che la verità che egli attesta ad altri è una verità salutare che, se va affermata al prezzo della propria vita, non confonde però la propria esperienza con la verità che la alimenta.
Cerco di suggerire un secondo tratto che possa essere una provocazione per l’AC: potremmo chiamarla la vocazione sinodale dell’AC. Occorre, mai forse come oggi, che il laico partecipi al carattere corale della testimonianza, parli i molti “linguaggi” della testimonianza. Essa non è un atto isolato, ma si dà solo nella comunione ecclesiale. Il NT non conosce dei profeti isolati, ma semmai pionieri che sono come i battistrada che trascinano dietro di sé la comunità credente. Non si dà testimonianza separata dalla trama di relazioni della comunione ecclesiale. Si profila al nostro orizzonte un tempo dove la Chiesa o sarà la comunità dei molti carismi, servizi e missioni o non esisterà semplicemente. Dico questo non solo in riferimento al problema urgente e, in alcune regioni d’Italia drammatico, della scarsità del clero e dell’aumento della sua età media. Questa sarebbe ancora una visione funzionale dei carismi e del compito dei laici nella chiesa e nel mondo. Non bisogna pensare alla testimonianza di tutti come il surrogato a buon prezzo della carenza di ministri del vangelo. È il Vangelo stesso che esige un annuncio nella corale diversità e complementarità di carismi e missioni. Nessuno può pensare di dire la ricchezza della pasqua di Gesù da solo, ma solo ricono-scendo sul volto dell’altro l’aspetto che gli manca per dire Gesù al mondo.
Mi immagino la ricaduta pastorale di questa rinnovata coscienza comunionale della testimonianza: anche qui l’AC ha una splendida tradizione che può trovare rinnovato slancio. Nelle diocesi e nelle parrocchie l’AC è la sentinella del mattino che cura il volto comunionale della chiesa, essa si trova in tutti i luoghi dove c’è da fare rete, elabora i linguaggi che fanno circolare esperienze di nuova comunione e missione. L’AC deve stare attenta al pericolo della burocrazia ecclesiastica, al contrario deve essere la corrente viva della pastorale d’insieme, della lettura dei segni nuovi della vita della chiesa, dell’animazione di progetti pastorali profetici, anche se parziali, della capacità di abitare i linguaggi della cultura, della socialità, della cittadinanza, soprattutto presso le nuove generazioni. Il credente di AC è un uomo della “sinodalità”, capace di “camminare insieme” (syn-odos), soprattutto di aprire strade comuni. Sogno una chiesa abitata da persone che faranno uscire il laicato dall’essere semplice collaboratore dell’apostolato gerarchico per diventare corresponsabile di una comune passione evangelica. Posso dirlo con immagine sportiva: la donna e l’uomo di AC sono un “pivot” della vita ecclesiale, un credente saggio e oculato che sa elaborare le chiavi, i linguaggi e gli strumenti perché circoli l’esperienza viva dei liberi legami che fanno la chiesa. Proviamo a immaginarlo nelle parrocchie, cerchiamo di pensarlo nello scambio tra le diverse comunità, all’interno di una diocesi, per forme di partecipazione nella chiesa, per le esperienze educative della vita ecclesiale, per le iniziative di formazione cultuale, per la presenza civile e sociale, ecc. Occorre uno scatto di fantasia per far sognare ancora molte persone che è possibile vivere la chiesa!

Il mondo come alfabeto: il racconto e l’esercizio

Infine, il terzo aspetto dice che la testimonianza ha la caratteristica di un esercizio del cristianesimo. Il cristianesimo ha la forma di un agire grato, di un esercizio della vita cristiana che sappia assumere le forme della vita umana come un alfabeto e una grammatica in cui dirsi e in cui darsi. Sarebbe un’interpretazione fuorviante – l’ho fatto notare sopra – immaginare che il “mondo”, presente nel motto di Verona, rappre-senti solo lo scenario passivo di un’azione che il credente opera in favore d’altri. Il “mondo”, quando è inteso come il mondo della vita, cioè le forme con cui l’uomo di oggi desidera, soffre, lotta, sogna, ama e spera, è l’alfabeto e la sintassi dell’annuncio del vangelo, allo stesso modo con cui le parabole hanno potuto offrire una similitudine del Regno di Dio a partire dalle forme dell’umana esperienza. Gesù ha abitato lo scenario di Nazaret e della Galilea per trenta interminabili anni, immergendosi nei linguaggi umani, perché in soli tre anni quei linguaggi e quelle esperienze potessero quasi lievitare, anzi esplodere dal di dentro per dire l’evangelo di Dio. In fondo si tratta di ricuperare in modo corretto il rapporto tra creazione e salvezza, ma non tanto come tema teorico, ma come “incontro vitale” tra l’esistenza umana e la sapienza di Dio.
Ora questo incontro ha la forma di un esercizio, di un tirocinio, di un mettersi in gioco tra il testimone e il beneficiario, perché diventi a sua volta testimone. Il cristianesimo come “esercizio” significa che l’agire pratico non è tanto un “mettere in pratica” ciò che è già saputo a monte nel limbo di una presunta fede disincarnata, ma avviene nello scambio reale delle forme pratiche della vita con il lievito del vangelo di Gesù. Per questo la testimonianza si esprime in un racconto, cioè nella narrazione di un evento che viene trasmesso ad altri attraverso la mediazione del testimone che chiama il beneficiario a consegnarsi non al testimone, ma alla verità del Dio di Gesù, trasmessa nel racconto in quanto piena di senso e di valore. Non è un caso che il Vangelo di Gesù abbia assunto la forma di un racconto e anche la confessione di fede deve sempre mediarsi in un racconto se non vuole decadere in dottrina ideologica. Ce lo dice ancor una volta la prima lettera di Pietro, quando passa alla metafora storico-salvifica: «Voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce» (1 Pt 2,9). Le quattro proprietà del popolo cristiano sono attive e dinamiche e hanno una proiezione missionaria: affinché proclamiate le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce. Ciò che i credenti devono annunciare sono le azioni e le opere eccellenti di Dio che li ha fatti passare dalle tenebre dell’uomo vecchio all’uomo nuovo.
Cerco di delineare il terzo tratto in modo che possa suggerire forse il contributo più specifico: quello che vorrei chiamare il genio cristiano dell’AC. Gli uomini e le donne di AC, con tutto il ventaglio delle stagioni della vita, possono diventare il luogo di un “esercizio vivo” del cristianesimo e per questa via un “nuovo racconto” della speranza. Potremmo dire che il genio cristiano dell’AC si esprime nelle opere e nei giorni di uomini e donne che sono uno spazio personale e associato di discernimento vivo del vangelo, dove avviene quell’“ammirevole commercio” tra le esperienze della vita e le esigenze del vangelo. Essi possono assumere nella comunità credente la figura del “cristiano vigilante”, della sentinella del mattino, quella che prevede il sole luminoso attraverso i bagliori dell’aurora. Si tratta di un credente che unifica in sé le forme del cristianesimo incarnato e, insieme, escatologico, capace di mostrare l’altra faccia del vangelo che non si può realizzare nel frammento presente. È un credente che non abbandona la terra per guardare le cose di lassù, ma vede quelle di lassù abitando la terra.
Che cosa significhi questo sotto il profilo di un cammino pastorale è insieme facile e difficile a dirsi. Ci vorrebbe la passione di un Paolo VI per far sognare queste donne e questi uomini come portatori di futuro, ci vorrebbe lo slancio di un Giovanni Paolo II per parlarci di quell’intellectus spei che è l’esercizio e il racconto della speranza. Se c’è una specificità – dicevo – del genio cristiano dell’AC, è quella di esercitare un’intelligenza della forme nuove della pastorale ordinaria, in comunione con le altre figure di testimonianza, in particolare con il ministero dei sacerdoti e dei vescovi. Questa è un’operazione spirituale, pastorale e culturale, perché oggi non è più possibile pensare e praticare un rinnovamento dei modi della vita cristiana nelle chiese locali non solo senza i laici, ma urgentemente con i laici. Se l’AC vuole rimanere il battistrada del laicato cristiano, come lo è stato per molto tempo con figure di credenti di grande spessore cristiano, umano, civile e sociale, deve saper stare nella chiesa con uno stile di elaborazione spirituale, pastorale e culturale. Oggi non lo può fare se non nel gioco con altre forme associate di esperienza cristiana. Questi tre aspetti – spirituale, pastorale, sociale – sono fortemente connessi e possono trovare negli ambiti prefigurati per il Convegno di Verona un terreno di prova e di elaborazione. Tutti s’attendono – come dice il logo di questo Convegno – che sappiate tratteggiare “Disegni di speranza”!
Vi auguro che questi giorni siano per così dire la prova generale del Convegno Ecclesiale di ottobre. Posso formulare il mio augurio con le parole di J. A. Möhler: «Non vorremmo morire né asfissiati per estremo centralismo, né assiderati per estremo individualismo. Né uno può pensare di essere tutti, né ciascuno può credere di essere il tutto, ma solo la diversità e l’unità di tutti è una totalità. Questa è l’idea (eidos) della chiesa cattolica!». L’eidos della chiesa è quella di una sinfonia di carismi e missioni, al sevizio della chiesa come testimonianza. Per la vita del mondo!
Mons. Franco Giulio Brambilla

30 aprile 2006 nell'incontro che l'AC ha tenuto a Verona in preparazione al Convegno Ecclesiale.

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